La scomparsa delle lucciole Wall Street International

Intervista a Josep Tornero

15 APRILE 2019,
La scomparsa delle lucciole, foto Consorci de Museus de la Comunitat Valenciana

Josep Tornero è una delle voci più interessanti della pittura contemporanea e, non per niente, è da poco stato premiato con il XI Premio de Pintura Parlamento de la Rioja. Ha al momento in corso una mostra molto importante, La Desaparición de las Luciérnagas, (La Scomparsa delle Lucciole), presso il Centre del Carme Cultura Contemporània di Valencia, visitabile fino al 19 maggio 2019. Ho avuto occasione di incontrare Josep e porgli alcune domande sulla mostra in corso e più in generale sulla sua pratica artistica.

Raccontami qualcosa di questa mostra. Quali sono le opere presenti? Come è nata l’idea della mostra? Perché si intitola La scomparsa delle lucciole?

Le opere presenti in questa mostra comprendono dipinti, documenti e sculture. Nell’insieme è una mostra installativa, cioè si è provato a creare un insieme di installazioni attraverso diverse manifestazioni artistiche. In questo modo, sia i dipinti, sia le immagini d’archivio utilizzate, sia il gruppo delle sculture sono raggruppati in installazioni artistiche basate sul tema della mostra.

Questo tema nasce dall’ultimo articolo che Pier Paolo Pasolini ha scritto su Il Corriere della Sera poco prima che fosse assassinato. Un articolo che contiene la forza dell’ultimo Pasolini, un Pasolini deluso che comunque attraverso la sua analisi diventa un visionario. In questo articolo l’autore discute vari argomenti che mi interessano da tempo: le paure, il vuoto, le preoccupazioni nei confronti di una perdita che già allora cominciava a manifestarsi…

Nel mio lavoro mi sono preso un po’ di tempo per ricercare e archiviare immagini che in qualche modo riflettono queste inquietudini, ma è stato lo storico Georges Didi-Huberman che in un qualche modo mi ha permesso di completare la realizzazione del progetto. La metafora delle lucciole fornita da Pasolini permette a Didi-Huberman di anteporre alle potenti luci della modernità la descrizione che Dante fece del cuore dell’Inferno dove sventolavano piccole luci (lucciole) nella fossa dei «consiglieri perfidi” delle anime malvagie, lontano dalla grande e unica luce promessa nel Paradiso.

La scomparsa delle lucciole riflette sui testi di questi autori, riprendendo il titolo che lo stesso Pasolini usa come metafora nel suo articolo. È una riflessione sull’immagine, nella quale cerco di mantenere un dialogo con le immagini, dove uso l’idea del montaggio nel modo in cui Aby Warburg mostrava le immagini del suo Atlas Mnemosyne, cercando delle corrispondenze tra di loro. In qualche modo, l’immagine è portatrice di reminiscenze fobiche, di tensioni emotive che vengono trasmesse di volta in volta.

Nell’installazione di immagini, l’inferno dantesco interpretato da Botticelli presiede il polittico con immagini iconiche di barbarie. Ci sono anche fonti cinematografiche e pittoriche, come Ixion del pittore barocco Josep de Ribera. I dipinti affondano nei fantasmi, negli spettri come sintomo di emozioni primitive. Le sculture, invece, diventano una rappresentazione iconica della perdita d’identità, le maschere anti-gas non nascondono il volto, ma piuttosto diventano in qualche modo il volto del potere.

Nell’articolo di Pier Paolo Pasolini La scomparsa delle lucciole, Pasolini fa un’analisi sociologica dell’Italia di quegli anni che ha perso gli ideali (le lucciole) e che quindi brancola nel buio, nel vuoto. Sei stato residente in Italia per un po’ di tempo, c’è secondo te molto buio in Italia? E negli altri paesi?

Penso che il buio, l’oscurità, non sia mai scomparsa, è sempre stata latente nella nostra società. Pasolini ha fatto una riflessione lucida e visionaria nel 1975, utilizzando il contesto sociologico italiano dell’epoca. Nel mio paese, d’altra parte, la democrazia arriva dopo la morte del dittatore, avvenuta nello stesso anno. Dopo quarant’anni da entrambi questi eventi le società europee sono diventate uniformi e le paure e il vuoto sono riemersi semplicemente perché erano già lì. È molto curioso che questo progetto artistico abbia riunito diverse voci che hanno avuto uno stretto rapporto con l’Italia. Ovviamente la voce principale è quella di Pasolini stesso, ma anche Didi-Huberman ha abitato per alcuni anni nella città di Roma, o lo stesso Aby Warburg, che sarebbe stato definito come «Amburghese di cuore, ebreo di sangue, Fiorentino d’anima». Forse qualcuno dovrebbe approfondire e analizzare il ruolo che l’Italia ha come punto di riferimento nel tempo. Lo intuisco, ma non ho ancora il coraggio di argomentarlo.

Cosa ti attrae del buio?

Il buio è in noi stessi dai tempi primitivi. Si nutre delle nostre paure più profonde e più irrazionali. Nietzsche aveva già avuto un faccia a faccia con esso, identificandolo con quell’abisso che ti fornisce lo sguardo con cui cerchi di scrutarlo. In un certo senso, ha afferrato l’importanza che può darci il vuoto quando paure e timori esplodono. Anche Enrico Castelli fa un riferimento teorico alla storia dell’arte stessa, da un altro punto di vista, cogliendo l’importanza che hanno per noi l’abisso o il buio.

Castelli parla del diabolico e usa la sua etimologia greca per restituire il suo significato originale: dia-bolico è ciò che separa, ciò che seziona. Ed evoca di nuovo il suo potere di seduzione: Abyssus abyssum invocat (l’abisso chiama l’abisso). Il buio è quell’abisso, quel vuoto. Per gli antichi greci, quella cultura vitale e amante della vita, vivere non era come per noi respirare, ma vedere. Noi diciamo «il suo ultimo respiro», ma loro dicevano «il suo ultimo sguardo». Edipo muore nella vita. Hanno creato l’arte come divertimento, come celebrazione dell’esistenza. Quella gioia e quella celebrazione erano una risposta dopo aver guardato nell’oscurità? È molto probabile. Ricordiamo la testa della Gorgone (Medusa), quel mostro che portava la morte negli occhi, che viene riprodotta in migliaia di dipinti e ceramiche greche. Per i greci l’immagine era una purificazione prima delle paure e dell’oscurità.

Nelle tue opere ritroviamo colori e immagini che incutono un po’ di paura, di timore, di ansia. Che cos’è per te la paura?

Questo è forse quello che stavo dicendo prima. Per me la paura, il timore, l’ansia sono emozioni che esistono in tutti noi fin dalla nascita. Emozioni che hanno agito sia individualmente che nelle nostre società. Sono il cibo delle tenebre, del vuoto. Cercare di nasconderli non ci farà bene. Per me è molto più importante essere in grado di lavorare con loro in termini di immagine, in qualche modo nel mio lavoro appare sempre una faccia dietro l’immagine, e quella faccia non è altro che la Gorgone.

Quali sono i tuoi progetti futuri? A cosa stai lavorando in questo periodo?

Al momento sto preparando una mostra che si terrà al Centro d’Arte Contemporània di Girona, in Catalogna, il prossimo settembre dal titolo Stanze: l’immagine e il fantasma. Qui cerco di approfondire il movimento, il fuggitivo, come significato di “sopravvivenza dell’immagine”. Sto lavorando a partire da quel dialogo che permette l’interazione tra scultura e pittura, per avvicinarsi a quella relazione che esiste tra l’immagine e il fantasma, da un contesto segnato dal tempo o dalla memoria, o dalla dissipazione del soggetto prima della storia e del suo viaggio.

Potrai anche vedere alcune opere prodotte a Roma e negli ultimi due anni. Ci sono altri progetti, che si occupano dell’arte ferita, e partono dalla prima esposizione organizzata nell’ambito delle attività dell’Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso, dove sono mostrate le straordinarie immagini delle sculture in gesso di Canova danneggiate dagli eventi bellici del 1917.

 

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